Giorgio Piazza: manager e coltivatore

Una carriera folgorante, quella di Giorgio Piazza, nato poco più di cinquant’anni fa (classe 1959) in provincia di Venezia e diventato, dopo una breve gavetta, uno degli uomini di riferimento della Coldiretti regionale e nazionale. Sommando all’esperienza manageriale il contatto diretto col mondo della produzione – assieme ai fratelli gestisce l’azienda vitivinicola ereditata dal padre – Piazza è l’uomo ideale da intervistare per avere un parere articolato e competente su una vasta gamma di argomenti: dagli Ogm ai vini biologici, alle biomasse. Ma prima uno sguardo al personaggio dal punto di vista umano.

Prima di diventare un importante manager lei ha avuto una carriera di rilievo in ambito sportivo e precisamente nel rugby. Come è riuscito a conciliare tutto, sport, istruzione e lavoro?
Non è stato facile, si è trattato di un sacrificio condiviso con la mia famiglia – mia moglie e mio figlio. Sono spesso via per lavoro, ma appena posso torno a casa, anche per riprendere il contatto diretto con la realtà produttiva. È vero che negli anni ’80 ho giocato come pilone sia nel mio club, il Benetton, che nella nazionale italiana. Allora però il rugby era diverso: prevaleva ancora uno spirito dilettantistico, anche in serie A, il che permetteva di studiare e allenarsi solo alla sera. C’era più tempo, non c’erano i ritmi incalzanti di adesso. Per cui, accanto allo sport, ho sempre collaborato con l’azienda paterna, venendo a contatto con la realtà produttiva del territorio. Poi, dopo il liceo, mi sono laureato in Agraria e  il successivo passaggio a Coldiretti è avvenuto in maniera molto naturale. Nel 1990 sono diventato vice-presidente provinciale. Ero però ancora  impegnato con lo sport, la mia carriera rugbistica è durata fino al 1999, per cui delegavo molto. Nel 2004 sono stato fatto presidente provinciale e quindi nel 2005 ho assunto la carica a livello regionale. Nel 2007 sono entrato a far parte della Giunta nazionale e nel 2008 diventato presidente del Consorzio Fidi Nazionale. Nel contempo, assieme ai miei fratelli, dopo la morte di mio padre, avvenuta nel 2006, continuiamo a gestire l’azienda di famiglia, dove produciamo tutti i vini della zona di Lison-Pramaggiore.

Di recente, lei ha assunto anche un’altra carica importante, quella di presidente del Consorzio Vini Venezia, nato dal Consorzio volontario tutela vini Doc Lison-Pramaggiore e del Consorzio tutela vini del Piave Doc. Qual è la ragion d’essere di questa operazione?
Il Consorzio tutela 44 vini Doc (quelli della Doc “Venezia”) e 2 Docg, il Lison e il Malanotte del Piave.
Si è deciso di unificarne la promozione per contenere i costi e razionalizzare l’offerta al mercato. C’è inoltre da dire che il brand Venezia, sul piano commerciale, è un brand fenomenale per la commercializzazione di vini di media qualità e alte rese, che trovano un ottimo riscontro su mercati come Germania, Nord Europa, Stati Uniti, Paesi del Bric (Brasile, Russia, India, Cina). Il Consorzio tutela e promuove comunque anche denominazioni di più alta qualità, ma con rese più basse. Il 12 novembre, abbiamo festeggiato ad esempio la stappatura  della prima bottiglia del Malanotte del Piave Docg.

In questo periodo si parla molto di biomasse, qual è la sua posizione in merito, anche tenendo conto del suo ruolo in Coldiretti come presidente delle Fattorie del Sole, l’ente che promuove l’utilizzo di energie rinnovabili in agricoltura? Si tratta di una forma di energia sostenibile o porta all’impoverimento del territorio, come sostengono alcuni?
Dipende da come lo si fa. Se usate con criterio, possono rappresentare un’importante possibilità per le imprese di fare reddito e diversificare la produzione. Purché, come dice la Legge, si tratti di un’attività connessa e non sia quella principale; e l’energia sia prodotta utilizzando reflui, scarti di potatura e della coltivazioni. Sul piano ambientale ci sono due aspetti da considerare: gli obiettivi di riduzione dell’inquinamento imposti dall’Europa (da raggiungere entro il 2020)  e quelli stabiliti dal Protocollo di Kyoto. Se non raggiungiamo i parametri richiesti dovremo acquistare crediti di Co2. Con una conduzione virtuosa, si calcola che potremmo invece risparmiare 40 miliardi anno di energia. In alcune regioni, come il Veneto, il problema è che manca un piano energetico che stabilisca collocazione e modalità di implementazione degli impianti a biomasse. Poi in alcune zone si trovano imprenditori interessanti, in altre, meno, il che è strano, perché si tratta di un’attività molto redditizia, in cui la tariffa è bloccata per 15 anni e si raggiunge il break even in 4-5 anni, poi è tutto guadagno.

E per quanto riguarda le coltivazioni Ogm? Sono un rischio o un’opportunità?
Gli Ogm dal punto di vista economico non rappresentano un’opportunità: i costi riducono in guadagni che si potrebbero avere dal non utilizzo di anti-parassitari. Per evitare contaminazioni fra le coltivazioni Ogm e quelle normali, bisognerebbe creare delle fascie tampone, e questo rappresenta un costo. In più, la gente non lo vuole; perfino in Usa, dove c’è una concezione economica molto più liberale, la gente non si fida. Il punto è che l’Ogm va a scapito della biodiversità; inoltre, la natura ha i suoi equilibri e non conosciamo esattamente tutte le implicazioni e conseguenze di alterare la catena della vita, inserendo dei pezzi di Dna in organismi viventi. Si rischia di creare delle reazioni imprevedibili, ad esempio, piante commestibili potrebbero sviluppare delle tossine. Anche i vantaggi derivanti dal fatto di non dover effettuare trattamenti anti parassitari, sono limitati nel tempo. Per esempio, in Inghilterra, dove si usa la colza per il biodiesel, è stato usato uno speciale disseccante che secca tutto quanto tranne la pianta produttiva. La colza però è molto vicina alla senape selvatica, che per un processo di adattamento quindi è diventata immune al disseccante. Qualcosa di simile è successo in Texas, dove gli  insetti hanno codificato resistenza agli Ogm.
In ogni caso, non bisogna nemmeno creare eccessivo allarmismo, e ricordare che parte di quello che mangiamo è già Ogm; come la soia e molti suoi derivati.

di Federico Guerrini

 

Una carriera folgorante, quella di Giorgio Piazza, nato poco più di cinquant’anni fa (classe 1959) in provincia di Venezia e diventato, dopo una breve gavetta, uno degli uomini di riferimento della Coldiretti regionale e nazionale. Sommando all’esperienza manageriale il contatto diretto col mondo della produzione – assieme ai fratelli gestisce l’azienda vitivinicola ereditata dal padre – Piazza è l’uomo ideale da intervistare per avere un parere articolato e competente su una vasta gamma di argomenti: dagli Ogm ai vini biologici, alle biomasse. Ma prima uno sguardo al personaggio dal punto di vista umano.

Prima di diventare un importante manager lei ha avuto una carriera di rilievo in ambito sportivo e precisamente nel rugby. Come è riuscito a conciliare tutto, sport, istruzione e lavoro?

Non è stato facile, si è trattato di un sacrificio condiviso con la mia famiglia – mia moglie e mio figlio. Sono spesso via per lavoro, ma appena posso torno a casa, anche per riprendere il contatto diretto con la realtà produttiva. È vero che negli anni ’80 ho giocato come pilone sia nel mio club, il Benetton, che nella nazionale italiana. Allora però il rugby era diverso: prevaleva ancora uno spirito dilettantistico, anche in serie A, il che permetteva di studiare e allenarsi solo alla sera. C’era più tempo, non c’erano i ritmi incalzanti di adesso. Per cui, accanto allo sport, ho sempre collaborato con l’azienda paterna, venendo a contatto con la realtà produttiva del territorio. Poi, dopo il liceo, mi sono laureato in Agraria e  il successivo passaggio a Coldiretti è avvenuto in maniera molto naturale. Nel 1990 sono diventato vice-presidente provinciale. Ero però ancora  impegnato con lo sport, la mia carriera rugbistica è durata fino al 1999, per cui delegavo molto. Nel 2004 sono stato fatto presidente provinciale e quindi nel 2005 ho assunto la carica a livello regionale. Nel 2007 sono entrato a far parte della Giunta nazionale e nel 2008 diventato presidente del Consorzio Fidi Nazionale. Nel contempo, assieme ai miei fratelli, dopo la morte di mio padre, avvenuta nel 2006, continuiamo a gestire l’azienda di famiglia, dove produciamo tutti i vini della zona di Lison-Pramaggiore.

Di recente, lei ha assunto anche un’altra carica importante, quella di presidente del Consorzio Vini Venezia, nato dal Consorzio volontario tutela vini Doc Lison-Pramaggiore e del Consorzio tutela vini del Piave Doc. Qual è la ragion d’essere di questa operazione?

Il Consorzio tutela 44 vini Doc (quelli della Doc “Venezia”) e 2 Docg, il Lison e il Malanotte del Piave.

Si è deciso di unificarne la promozione per contenere i costi e razionalizzare l’offerta al mercato. C’è inoltre da dire che il brand Venezia, sul piano commerciale, è un brand fenomenale per la commercializzazione di vini di media qualità e alte rese, che trovano un ottimo riscontro su mercati come Germania, Nord Europa, Stati Uniti, Paesi del Bric (Brasile, Russia, India, Cina). Il Consorzio tutela e promuove comunque anche denominazioni di più alta qualità, ma con rese più basse. Il 12 novembre, abbiamo festeggiato ad esempio la stappatura  della prima bottiglia del Malanotte del Piave Docg.

In questo periodo si parla molto di biomasse, qual è la sua posizione in merito, anche tenendo conto del suo ruolo in Coldiretti come presidente delle Fattorie del Sole, l’ente che promuove l’utilizzo di energie rinnovabili in agricoltura? Si tratta di una forma di energia sostenibile o porta all’impoverimento del territorio, come sostengono alcuni?

Dipende da come lo si fa. Se usate con criterio, possono rappresentare un’importante possibilità per le imprese di fare reddito e diversificare la produzione. Purché, come dice la Legge, si tratti di un’attività connessa e non sia quella principale; e l’energia sia prodotta utilizzando reflui, scarti di potatura e della coltivazioni. Sul piano ambientale ci sono due aspetti da considerare: gli obiettivi di riduzione dell’inquinamento imposti dall’Europa (da raggiungere entro il 2020)  e quelli stabiliti dal Protocollo di Kyoto. Se non raggiungiamo i parametri richiesti dovremo acquistare crediti di Co2. Con una conduzione virtuosa, si calcola che potremmo invece risparmiare 40 miliardi anno di energia. In alcune regioni, come il Veneto, il problema è che manca un piano energetico che stabilisca collocazione e modalità di implementazione degli impianti a biomasse. Poi in alcune zone si trovano imprenditori interessanti, in altre, meno, il che è strano, perché si tratta di un’attività molto redditizia, in cui la tariffa è bloccata per 15 anni e si raggiunge il break even in 4-5 anni, poi è tutto guadagno.

E per quanto riguarda le coltivazioni Ogm? Sono un rischio o un’opportunità?

Gli Ogm dal punto di vista economico non rappresentano un’opportunità: i costi riducono in guadagni che si potrebbero avere dal non utilizzo di anti-parassitari. Per evitare contaminazioni fra le coltivazioni Ogm e quelle normali, bisognerebbe creare delle fascie tampone, e questo rappresenta un costo. In più, la gente non lo vuole; perfino in Usa, dove c’è una concezione economica molto più liberale, la gente non si fida. Il punto è che l’Ogm va a scapito della biodiversità; inoltre, la natura ha i suoi equilibri e non conosciamo esattamente tutte le implicazioni e conseguenze di alterare la catena della vita, inserendo dei pezzi di Dna in organismi viventi. Si rischia di creare delle reazioni imprevedibili, ad esempio, piante commestibili potrebbero sviluppare delle tossine. Anche i vantaggi derivanti dal fatto di non dover effettuare trattamenti anti parassitari, sono limitati nel tempo. Per esempio, in Inghilterra, dove si usa la colza per il biodiesel, è stato usato uno speciale disseccante che secca tutto quanto tranne la pianta produttiva. La colza però è molto vicina alla senape selvatica, che per un processo di adattamento quindi è diventata immune al disseccante. Qualcosa di simile è successo in Texas, dove gli  insetti hanno codificato resistenza agli Ogm.

In ogni caso, non bisogna nemmeno creare eccessivo allarmismo, e ricordare che parte di quello che mangiamo è già Ogm; come la soia e molti suoi derivati.

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